Questa settimana racconterò due storie ugualmente diverse.
Un mio carissimo amico chiamandomi mi raccontava che da quando un anno fa ha avuto una bimba, la sua compagna è cambiata, e dalle sue costrette e sofferenti parole nel raccontarmi ciò che stava vivendo, per quanto lui molto duro e riservato, trasudava tutta la sua frustrazione, il suo dolore nel non sentirsi apprezzato qualunque cosa facesse, e soprattutto la sua solitudine.
Mi raccontava di come la notte avesse appuntamento con se stesso e si trovasse solo a pensare, in un posto tra il silenzio, il buio e la testa tra le sue mani, riflettendo sul perché pur amando sua figlia da morire, non si sentisse felice, apprezzato.. e di quante volte pensasse di cambiare e di dire alla compagna che così non andava, che non era felice, e che pur capendo la difficoltà dell’avere un figlio, stava scoppiando perché nel loro amore non si parlava più, non ci si guardava più, si erano persi di vista.
E tutte le volte che lui provava a fiatare per dirle anche una cosa dolce o aveva bisogno di lei come compagna, avvicinandosi per sentirne il contatto lei a tutta velocità senza neanche guardarlo gli passava un problema, una mansione, un prodotto da latte o qualcosa da comprare in farmacia, e tutto ciò di cui anche lui aveva bisogno veniva masticato ma mai ingoiato, veniva continuamente rimasticato per ore, giorni lì senza risposte, ma ancor peggio lì senza neanche una domanda da poter formulare.
Il mio amico senza accorgersene, come se avesse davanti la sua compagna, mi chiedeva il perché, il perché tutto sembrasse dovuto solo come padre e come compito di un ruolo e non come il sentire di farlo come uomo che ama sua figlia; e perché qualunque cosa lui facesse non venisse apprezzata, perché la meravigliosa responsabilità di sua figlia sembrasse essere figlia solo dell’amore di lei. Perché lui sembrasse sempre non capire nulla, o non fare niente rispetto a tutto quello che faceva lei, come se essere mamma fosse superiore rispetto all’essere padre. Diceva ancora, io ammiro la sua completa dedizione, ma mi chiedo pur capendo tutto, che fine abbiamo fatto noi due, lei come confidente, compagna, amica, io come compagno, come padre, ma soprattutto come uomo che soffre di un abbandono frutto di una specie di condanna in contumacia, pur essendo io ogni giorno lì testimone e presente nel cercare di dare e fare il meglio che posso. Concluse dicendomi che gli sembrava di essere stato svenduto e barattato, e per assurdo lo fosse stato proprio in cambio dell’amore più grande della sua vita, sua figlia.
La seconda storia riguarda una mia amica.
Lei divorziata, splendida donna e madre di due figli adolescenti, mi raccontava del suo attuale uomo, anch’egli divorziato con due figli più piccoli, con cui si trovava benissimo ma con cui non riusciva ad andare oltre. Mi diceva di aver fatto di tutto per tre anni, ma era stanca di vivere in case separate, di vivere come fossero fidanzati o di avere l’appuntamento con la passione solo qualche volta a settimana senza poter aprire gli occhi e vederlo la mattina accanto, come fossero clandestini, amanti, o se stessero rapinando o tradendo qualcuno. Mi diceva, tirata dal suo soffrire come una corda di violino tesa a più non posso, che amava i suoi figli, che capiva lui, le loro vite e il loro essere responsabili. Ma non poteva più continuare a restare seduta lì come in panchina aspettando che il Mister della felicità gli permettesse finalmente di entrare in campo gli ultimi 5 minuti, e di correre, giocare, stare bene. Era stanca di amare per tutto il tempo, ma di viverlo solo nei tempi supplementari.
Mi diceva di avere 42 anni, quando dovrei provare a vivere, e come è possibile che i miei figli che sono la mia vita e la mia gioia sembrino adesso essere un ostacolo, o una specie strana di problema, un macigno morale?!
Mi chiedeva dove è che stava sbagliando. Molto addolorata concludeva dicendo di aver dato e dare tutto, di donarsi completamente a lui, e di aver aspettato capendo le sue paure e la difficoltà di famiglie allargate, soprattutto nel tentativo di entrambi di proteggere la serenità dei figli per non creare traumi dovuti al cambio di meccanismi e ruoli, e mille altri sani motivi, ma ora era esausta e si sentiva troppo sola.
Riusciva a vedere tutti felici, i figli, il suo senso di responsabilità, e la propria autostima nel sentirsi una buona mamma. Ma aggiunse ancora, abbassando lo sguardo e trattenendo il suo soffrire che vi giuro afferrandomi le corde vocali intanto mi stava strozzando l’anima, che in questa specie di party celebrativo del giusto e politicamente corretto, c’erano tutti ma mancava qualcuno, la felicità. Cercava tra gli ospiti ma non vedeva se stessa, quella che amava, che godeva, che desiderava, che voleva e sognava ancora di amare, quella lei egoista, superficiale a volte, e perché no piena di desiderio e voglie come sano diritto di tutte le creature del mondo.
E mentre il giorno tutto questo veniva oscurato, la notte quando arrivava la notte, tutto veniva su inarrestabile come un disgustoso senso di vomito e una nausea dopo una sbornia epica.
Beh che dire! Io credo che la risposta non sia mai solo una, e che la vita e l’amore siano paradossali e anche molto più di quanto raccontato.
Ma sono convinto che “tutti abbiano il diritto di essere felici”, e che spesso si faccia confusione tra il nostro credere e il nostro amare, perché essere responsabili non vuol dire essere ciechi e ottusi, come anche l’amore, quello vero, non è sempre fare la cosa più giusta per tutti o doverla fare nella forma più perfetta che esiste, ma piuttosto farla se veramente amata e sentita.
Come le buone intenzioni e il voler essere maturi sono utili finché però non diventano un despota che prendendosi troppo sul serio, perde tutto il bello delle cose, anche quelle sbagliate, a metà o dal sapore incerto.
Sbagliare nel cercare di essere felici non è sempre un errore, mentre la paura di tentarlo troppo spesso lo è.
Come anche il non comunicare, mettendo giù la testa nel tentativo di essere i migliori genitori del mondo nel compimento del proprio dovere, per sedare le nostre insicurezze, senza più guardare dove è il nostro compagno e cosa stia vivendo, quello sì, per quanto dal sapore encomiabile, non può, se estremizzato, che risultare un errore nei fatti, pur non essendolo nelle intenzioni.
Eccovi la mia risposta.
Non sono i figli, la cosa più bella dell’esistenza, la causa della nostra infelicità, come non lo è il lavoro, il posto in cui viviamo, o la gente, bensì il nostro ostinarci a vivere senza la nostra felicità, filtrando tutto in base a paure, giudizio e bisogna, facendo il doppio errore di farlo reputandolo o credendolo ineluttabilmente, come l’unico modo possibile per essere felici.
Foto in evidenza da me intitolata ” un bambino non frena ma spinge” è opera di Tiziana Russo
Alcuni MINUTI D’AUDIO Riproducono la riflessione dell’articolo a voce alta, perché abbiano accesso all’ascolto i ciechi, chi lavorando non ha tempo o chi preferisce ascoltare, e quelli tra noi che pur avendo la vista sono diventati i veri Non Vedenti.
Buon ascolto o buona lettura come preferite.
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